Un sottile strato di dolcezza: alla scoperta di Giulia Impache

Album di debutto dalla lunga gestazione e dalle dettagliatissime scelte stilistiche, IN:titolo è la prima uscita di Giulia Impache, cantante, improvvisatrice e compositrice con sede a Torino dalle influenze estremamente variegate, dal jazz all’elettronica, dal madrigale antico alla musica concreta. A questo mondo sonoro dà vita assieme a Jacopo Acquafresca ed Andrea Marazzi, in un constante dialogo sonoro che pulsa, vitale. La sua ricerca sulla voce e sulla forma-canzone ha ampie ramificazioni: l’abbiamo raggiunta per mappare una parte dei suoi movimenti.

le tappe del percorso

Benvenuta Giulia, e grazie. Dunque, il tuo percorso in rapporto alla voce è molto stratificato, hai toccato molte fasi prima di giungere qui. Quali sono state le tappe del tuo percorso che ricordi come più significative, e perchè?

Il mio percorso musicale è sempre stato vario e forse un po’ insolito. A 20 anni ho preso parte al mio primo vero gruppo, un progetto storico-musicale che mi ha permesso di approfondire il canto storico italiano e internazionale interpretando testi dal forte significato, su melodie all’apparenza semplici, ma capaci di coinvolgere emotivamente chi ascolta. Ma la musica è sempre stata parte integrante della mia vita. Ho iniziato studiando chitarra e, quasi per caso, intorno ai 15 anni mi sono avvicinata al canto: una mia amica mi aveva proposto di dividere il costo di un corso, e così è cominciato tutto. Da quel momento è iniziato un viaggio tra generi diversi, spaziando dal gospel al funk, dal blues al jazz.

Durante l’università ho deciso che la musica sarebbe diventata la mia professione e mi sono iscritta al Centro di Formazione Musicale di Torino, dove ho seguito il corso di canto jazz. Qui ho affinato la tecnica vocale e approfondito l’aspetto teorico e compositivo della musica moderna. Un momento fondamentale nella mia crescita artistica è stata l’esperienza con il collettivo torinese d’improvvisazione Pietra Tonale, un’avventura che continua ancora oggi. Questa esperienza ha influenzato profondamente il mio rapporto con la ricerca vocale e compositiva. In quel contesto, sono maturata artisticamente: ho capito cosa mi piaceva davvero, cosa no, e cosa significava per me “fare musica”.

L’arrivo a Pietra Tonale, esperienza di collettivo musicale estremamente vivida nell’underground torinese, ti ha messo davanti all’improvvisazione e a nuovi modi di intendere la musica. Qual è stato il tuo attraversamento lì, e qual è al momento il tuo rapporto con l’improvvisazione?

L’improvvisazione mi ha permesso di conoscermi a fondo, di esplorare i miei limiti e superarli. È una pratica che ti rende più reattiva, stimola la creatività e alimenta costantemente la composizione. Ho sempre sentito il bisogno di vie di fuga, di libertà senza troppe costrizioni. L’improvvisazione radicale mi ha offerto quello spazio di libertà che cercavo, ma col tempo mi sono accorta che anche lì, in un certo senso, finivo per seguire un tracciato. Questo percorso mi ha portato a scoprire quanto ami, in realtà, la melodia: suoni lunghi, eterei, essenziali. È così che ho iniziato a scrivere i miei pezzi, accettando di voler essere autentica e forte nelle mie caratteristiche. Ho ricominciato ad ascoltare di tutto, soprattutto il buon pop, spesso poco conosciuto.

Oggi mi considero un ibrido: dall’improvvisazione ho mantenuto il piacere di creare composizioni estemporanee, uniche e irripetibili. Ho imparato ad ascoltare me stessa e gli altri, ma soprattutto sto imparando ad accettarmi. Accetto che la mia voce possa cambiare ogni giorno, che ci siano persone con cui riesco a suonare meglio e altre con cui non trovo armonia. Ho smesso di cercare di adattarmi a canoni rigidi, perché alla fine quei canoni sono ovunque, ma non devono definire chi sono.

la nascita dell’album

Il tuo album, IN:titolo, è arrivato dopo diversi anni dalla nascita del suo primo pezzo. Quali sono state le fasi di questo progetto, com’è stato dedicarsi per la prima volta alla realizzazione di un’opera di questo tipo? Com’è stato approcciarsi alla scrittura di materiale proprio, dopo molte esperienze musicali in cui questa pratica non è stata coinvolta?

Il primo brano che scrissi fu Life is Short. Qualcosa si sbloccò dentro di me, e in poco tempo riuscii a comporre In the Dark e Please. Era come se si fosse aperta una porta: riuscivo finalmente a tenere a bada il giudizio e a permettermi di scrivere e comporre liberamente, senza condizionamenti teorici o di genere. Per la prima volta mi sentivo emancipata dalle “etichette” musicali; scrivevo e cantavo esattamente come volevo. Molti dei brani del disco nacquero in un periodo particolare, tra il lockdown e la zona rossa. In quel periodo persi il lavoro, ma per la prima volta avevo davvero tempo per me stessa.

Le canzoni fluirono come un flusso di coscienza, una dopo l’altra. Durante quel periodo traslocai tre volte, e questi brani furono scritti in quattro case diverse. Crescevano e cambiavano insieme a me. L’ultimo brano del disco, Looking Life, nacque in una modalità completamente diversa. Fu il frutto di un’improvvisazione con Jacopo Acquafresca, che fortunatamente registrammo.

Il tuo lavoro con la voce, oltre alla pratica più prettamente performativa, prende anche altre direzioni: ad esempio, quella della musicoterapia e quella della didattica vocale. Cosa ti porta in dote il lavorare con la tua voce in questi ambiti?

Il mio lavoro come didatta e musicoterapeuta ha avuto un impatto profondo nel ripensare il mio ruolo di cantante e compositrice, aiutandomi a sviluppare un linguaggio di ricerca il più possibile accessibile a tutt*. Chi crea musica o arte non può ignorare il pubblico; è fondamentale trovare un modo per raggiungere più persone senza perdere la propria autenticità. Ritengo che il pubblico vada invitato all’ascolto, non semplicemente guidato verso ciò che già conosce per sentirsi al sicuro. Preferisco offrire qualcosa di ibrido, lasciando spazio alla scoperta.

Mi piace pensare alla voce come a una guida, un punto di riferimento in cui il pubblico può riconoscersi e sentirsi al sicuro, anche in un viaggio insolito e distorto. In musicoterapia, l’attenzione è rivolta al processo, più che al risultato estetico, un approccio che mi ha insegnato a sospendere il giudizio, sia verso me stessa che verso le altre persone. Ha rafforzato la mia capacità di contestualizzare azioni e parole, accrescendo la mia sensibilità. Nell’insegnamento, lavorare con adolescenti mi mantiene aggiornata e aperta. Ascolto attivamente ciò che mi propongono, trovando sempre nuove ispirazioni.

identità visiva e scoperta sonora

L’identità visiva del tuo progetto è molto curata e la tua stessa musica sa essere estremamente immaginifica, a tratti lisergica nel suo saper convogliare immagini complesse e curiose. In più la tua pratica vocale mette al centro il corpo che performa, e ti occupi della presenza anche nell’attenzione allo styling tuo e dei perfomer che ti accompagnano. Quale rapporto c’è tra la tua musica e il mondo delle immagini, del visivo?

Il mio percorso creativo è profondamente radicato nei miei studi artistici. Durante gli anni del liceo mi sono immersa nel mondo della pittura, sviluppando un amore particolare per l’arte informale. Questo stile, libero da forme rigide e strutture convenzionali, ha influenzato profondamente il mio approccio all’improvvisazione vocale. La voce per me è come una tavolozza di colori e lo spazio che mi circonda diventa la mia tela. Ogni suono, ogni sfumatura vocale, è un gesto, un’azione fisica che richiama il movimento di dipingere o di gettare colore su una superficie.

Attraverso la mia voce creo atmosfere e testi volutamente vaghi, capaci di evocare immagini e suggestioni visive lasciando spazio all’interpretazione personale. Parallelamente nutro una forte passione per la moda,che considero una forma d’arte a tutti gli effetti. Per me la moda è un mezzo di espressione e una modalità di comunicazione visiva, un gioco compositivo che combina colori e volumi per trasmettere emozioni e concetti. Questo legame tra arte, voce e moda rappresenta l’essenza del mio universo creativo, dove ogni elemento si intreccia in un dialogo continuo e dinamico.

La tua attività musicale è sempre stata caratterizzata da una grande curiosità: quali sono i mondi che al momento stai esplorando? In che direzione si sta spostando la tua ricerca?

Attualmente sto esplorando e definendo con maggiore chiarezza alcuni aspetti sonori che già emergono in forma embrionale nel mio ultimo album. Il mio focus principale è sullo sviluppo di uno stile compositivo che intrecci in modo organico testi e melodie con l’obiettivo di creare un linguaggio personale e riconoscibile. Per raggiungere questo scopo il mio approccio parte dallo studio delle composizioni musicali e delle poesie dei secoli XIV e XV, un periodo ricco di sperimentazione musicale e poetica che ha visto l’emergere di nuove forme di espressione artistica. Tuttavia l’intento non è quello di creare una rivisitazione storica, piuttosto un dialogo tra il passato e il presente dove l’esperienza musicale antica si fonde con suoni elettronici e contemporanei.

Un elemento fondamentale di questo processo è l’unione di due dei miei principali interessi: da un lato la musica antica e polifonica, che trovo particolarmente affascinante per la sua struttura compositiva ricca e profonda, dall’altro la musica elettronica, con le sue possibilità infinite di manipolazione del suono e di creazione di atmosfere uniche. L’idea è di sviluppare una sintesi che non sia solo stilistica ma anche concettuale, con la ricerca di un linguaggio che abbracci diverse epoche per cercare di crearne di nuovi.

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