Irbis: dall’odio all’oro, passando per il fuoco

“Lacrime e cemento”, l’ultimo album di Irbis, è una piccola perla di contraddizioni. Cantautorale e street, dolcissimo e pieno d’odio, denso e leggiadro. Oltre che l’ennesima conferma di una delle penne più importanti e urgenti del panorama emergente, questo disco è anche un piccolo trattato di alchimia.

“C’è qualcosa di ingiusto / qualcosa di assurdo / nelle nostre vite al limite”

C’è qualcosa nella scrittura di Irbis che lo rende istantaneamente credibile. Qualcosa di graffiato – o meglio, di graffiante – nella sua voce, che modula dall’urlo al sussurro, abbracciando tutti i registri. E, viene da aggiungere, tutti i colori e le complessità, tutte le contraddizioni delle persone sensibili che vivono in ambienti meno sensibili di loro.

Le periferie milanesi che Irbis racconta sono un mondo violento e noncurante, e la sua discografia assomiglia a quei papaveri che in primavera crescono beffardi nell’erba incolta tra i binari delle stazioni. Un atto di ribellione, di dissenso dal basso. Puntini colorati di rosso che rischiano continuamente di essere masticati dal grigio.

“SIA BENEDETTA LA FORZA CHE CI HA TENUTO IN PIEDI / SIA BENEDETTA L’ACQUA CHE HA NUTRITO QUESTO SEME”

Già dagli inizi, con la musica confezionata con i producer Logos.Lux e dNoise, Irbis aveva fatto capire con chiarezza di non volersi incastrare in nessun genere. Uno stile tutto suo, ma in continua trasformazione. Una “penna secca e curvilinea” su 808 trap e chitarre classiche, armonie sofisticate alternate a flussi di coscienza in extrabeat. Praticamente un vulcano di influenze e istanze anche opposte, sia musicalmente, che a livello personale. Martino Consigli (questo il nome di battesimo dell’artista classe ’97) racconta infatti la vita di un ragazzino che cerca di difendere la propria esuberanza e il proprio sentire in contesti sociali di disagio, là dove la prevaricazione è insegnata come necessità e valore. E dove ogni manifestazione di difformità dalla norma è un pretesto per chi vuole farti male.

Dove, in sostanza, devi lottare per mantenere il tuo fuoco vivo, ed il vulcano attivo.

“Se mi son chiamato fuori è stato solo istinto / ma non basta camminare per andare dritto”

Quanto costa farsi più in là? Scostarsi da un mondo dove tutto ti urla che devi essere più forte degli altri, per sopravvivere? Vestirsi solo di sensibilità, della propria volubile incertezza; e magari fare proprio della debolezza il proprio punto di forza?

Ecco, la musica di Irbis è questo. Un tentativo, costantemente sul filo del rasoio, di assecondare la tensione e scoprire qualcosa di più bello rispetto a quello che vedi intorno (e dentro) di te.

“IL SUONO DELLE MIE CATENE / MI FA VENIRE VOGLIA DI FARE IL BLUES”

In un certo senso, quello di Irbis è anche un atto politico. La sua musica ricorda (a noi che ascoltiamo, e alla scena in generale), che è possibile venire dalla strada e fare musica che parla di strada, ma senza omologarsi a narrazioni violente e machiste. È possibile rompere la catena, e si può anche risultare credibilissimi, facendolo. Ci racconta – senza sputare sentenze e con un punto di vista giovane, attento, freschissimo – le logiche di distruzione e autodistruzione che proliferano nel tessuto sociale della periferia italiana. E che sono presenti (lo diciamo? Ma sì dai, diciamolo) in forme e scale diverse in tutti i livelli della nostra società.

Irbis nelle sue canzoni parla della ricerca di un proprio personalissimo equilibrio nonostante tutto, e ci ribadisce che c’è qualcosa di salvifico nella ricerca di empatia, di profondità, di complessità. Che è possibile, in qualche modo, distillare la propria rabbia e il proprio risentimento per farne qualcosa di puro e di unico.

“Per tutto l’odio che è in noi / Per tutto il vuoto dentro / Per tutto l’oro che è in noi / Per tutto il fuoco dentro “

Ma arriviamo a “Lacrime e cemento”, prodotto magistralmente da Ceri e Colombre ed uscito lo scorso 10 maggio per Undamento. Martino nel frattempo ha perso la casa e quasi tutti i suoi averi a causa di un incendio. Riesce a salvare soltanto un microfono. Sembra un segno del destino, e probabilmente lo è.

Nei due giorni successivi alla catastrofe scrive due dei pezzi più importanti e pregni dell’album: Impressioni e Vernice Nera. Ora parla di questo evento come di una salvezza, come di una sorta di benedizione che l’ha costretto a fare i conti con quello che rischiava di diventare la sua vita. Un tuffo in verticale nel dolore, nella pancia del vulcano, nella “pietra lavica calda e paurosa”.

E lì in fondo tutto diventa possibile: la follia e l’esaltazione, la depressione e l’estasi creativa. È un momento (ben rappresentato dallo sguardo di Irbis nella copertina del disco: distante, chiuso in sé stesso, fermissimo ma in subbuglio) in cui la tua esistenza diventa un brodo primordiale di possibili scenari anche totalmente opposti tra loro. Ed alla fine, se ne esci fuori, ritorni con quelle poche cose che sono davvero importanti per vivere la vita che vuoi.

L’antica disciplina dell’alchimia si prefiggeva di trasformare il piombo in oro, attraverso tutta una serie di trasformazioni della materia che però erano anche metaforiche e spirituali. Ecco: Irbis, e Martino, ora conoscono l’importanza del fuoco fuori per non spegnere il fuoco dentro. Per sublimare l’odio e farne oro.

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Classe '95, romano ma a Torino. Faccio, non necessariamente in quest'ordine: l'ingegnere in un gruppo di ricerca che si occupa di estrarre energia rinnovabile dal mare, ripetizioni di matematica e fisica, poesia performativa e poetry slam, canzoni sotto il nome di Marco Sirma.