Le mille vite sonore di Damon Arabsolgar

Damon Arabsolgar ha consegnato alle orecchie del suo pubblico Whale Fall, debutto solista di una persona che ha attraversato in lungo e in largo l’esperienza del suono, dalle esperienze in altre band alla produzione di dischi altrui. Personale eppure dotato di un afflato capace di accogliere l’umano che abita in ogni persona, questo disco è una tappa di svolta in un percorso denso e ricco. Lo abbiamo contattato per mettere assieme qualche punto su questa mappa.

LA MUSICA, ONDE CHE RISUONANO

Benvenuto Damon, e grazie. Dunque, il viaggio che ti ha portato a Whale Fall, il tuo disco solista uscito qualche mese fa, dura da molti anni. Qual è stato il modo in cui ti sei avvicinato al fare musica?

Ho cominciato quando ero molto piccolo. Avevo solo due anni e mezzo quando i miei genitori hanno deciso di iscrivermi ad una scuola di musica, un corso Yamaha. È stato forse il gesto più rivoluzionario che potessero fare. Mio padre infatti è persiano e da piccolo era riuscito a comprare di nascosto un setar (uno strumento a tre corde della famiglia del saz) ma il nonno, una volta scoperto lo strumento, lo aveva buttato via, spaventato che mio padre smettesse di studiare per dedicarsi alla musica.

Mia madre invece è una persona molto curiosa. Mi ha cresciuto insegnandomi tutto quello che sapeva, rispondendo con calma e serietà a tutti i perchè che le chiedevo, spaziando dalla scienza alla tecnologia ai linguaggi di programmazione. Erano però consapevoli che c’erano alcune cose che non avrebbero potuto insegnarmi, fra cui la musica. Hanno fatto quello che molti genitori non sanno fare. Invece che spingermi verso ciò che conoscevano o volevano che io diventassi hanno investito sul mettermi in contatto con più esperienze possibili, in modo che io potessi trovare la mia strada.

Non ero uno studente modello. Non avevo di certo il talento per la musica classica, però ho fatto dei corsi di composizione e musica d’insieme che mi hanno davvero formato. Ad un certo punto ho deciso di smettere di prendere lezioni di pianoforte. A casa c’era una chitarra classica di mia sorella un po’ abbandonata a se stessa e avevo cominciato a suonicchiarla.

Mi piaceva molto non sapere quali note stavo suonando, potevo chiudere gli occhi e perdermi nella musica senza pensare agli accordi. Inoltre c’era qualcosa di nuovo e ipnotico, fisico, nel sentire il suono nascere direttamente a contatto con i polpastrelli. Si tratta di un’esperienza molto lontana da quella che avevo avuto fino a quel momento con il pianoforte, relegata un po’ agli spartiti. Così un bel giorno, per la prima volta libero dai compiti settimanali delle lezioni, mi sono domandato cosa ci fosse dentro al mobile del pianoforte. L’ho aperto, ho studiato il meccanismo e per mesi non ho fatto altro che percuotere le corde tenendo giù il pedale, suonandole con le dita, con le bacchette, con le monete e tutto ciò che trovavo in giro e standomene letteralmente tutto il pomeriggio seduto proprio dentro al mobile del pianoforte.

Lì ho capito che la musica è anche suono, onde che risuonano nella stanza. C’è un primo livello legato alle parti musicali ed un secondo legato a come queste parti riempiono lo spazio acustico, intersecandosi l’una con l’altra, creando una tessitura superiore effimera e inafferrabile. Da piccolino avevo sempre a fianco al pianoforte un piccolo registratore di cassette su cui incidevo le mie idee. In fondo penso semplicemente di non aver mai smesso di scrivere canzoni e registrarle.

la raccolta di poesie

I testi di questo album arrivano da Geologia delle iridi, raccolta di tue poesie del periodo 2015/2019. Com’è stato lavorare in una direzione musicale su testi di questo tipo? Qual è la linea di continuità che vedi tra quei testi sulla carta e il come li esprimi nella forma-canzone?

Il mio approccio al rapporto fra poesia e musica è in continua evoluzione. Inizialmente ho cominciato a cantare in inglese. Avevo la necessità interiore di comunicare profondamente ad una persona che viveva in America e di cui ero profondamente innamorato. Aveva una condizione particolare chiamata sinestesia, in cui ogni suono che percepiva corrispondeva ad una sensazione tattile sulla sua pelle e, dato che la mia voce era per lei “come acqua che gocciola dai gomiti quando si piegano le braccia”, ho sentito di voler scrivere delle canzoni in inglese che potessero mantenerci connessi anche con un oceano di distanza.

Nel tempo ho sperimentato modalità diverse, con i Pashmak ho sempre mischiato italiano e inglese con un approccio a volte anche spoken word. Avevo diciotto anni e ascoltavo i Massimo Volume e il Teatro degli Orrori. Durante la scrittura di questo disco ho preferito invece prendere i testi e usarli come un grande bacino da cui attingere in maniera quasi casuale, per vedere quali parole potevano combaciare con melodie e suoni asemici che canticchiavo suonando il pianoforte. Così facendo i testi sono diventati come visioni che aggiungono immagini alla materia musicale. Le frasi vengono infatti da poesie diverse e, riassemblandosi, assumono così nuovi significati. Penso che questo processo permetta a chi ascolta di proiettare i propri significati e trovare le proprie risposte, non dando una direzione univoca ma un ventaglio di metafore che ci accomunano.

Geologia delle iridi è così diventato il radicamento di Whale Fall, le cui canzoni sono i suoi rami, foglie e fiori. Penso che la linea di continuità che unisce questi due lavori sia un discorso molto autobiografico e vulnerabile. Parte dall’esperienza personale per provare a carpire qualche scintilla universale, come quei piccoli istanti di lucidità in cui si comprende qualcosa di molto profondo e importante sulla vita. È bello vedere che queste scintille ora accendono fuochi. Dal palco a volte vedo negli occhi del pubblico qualcosa di piccolissimo e tenero, fragile e personalissimo eppure infuocato. Un divampare di incendi che partono da preziosissimi bambini interiori.

la nascita di whale falls

Le date in cui nascono i testi della raccolta ci raccontano di idee che hanno avuto un periodo di gestazione molto lungo. Com’è nata l’idea di questo progetto, e quali sono state le fasi che hai attraversato?

Questo progetto nasce nel 2016, la stessa estate in cui sono nati i Mombao. Avevo deciso infatti di passare agosto a Milano, comprare alcuni microfoni, una scheda audio e imparare a registrare e produrre musica. Volevo provare a comporre, registrare, produrre e mixare canzoni nello stesso momento per cogliere quel qualcosa di inafferrabile che avviene a volte quando si fanno le cose per la prima volta, senza pensarci tanto.

Da quell’estate sono nate Nils e Whale Fall, che rimangono tali e quali a come le ho esportate dal mio computer quasi nove anni fa. Poi la vita ha preso altre strade. L’ultimo disco dei Pashmak, i tour con i Mombao, Xfactor, i tour nei Balcani, in Marocco e Russia, e il progetto solista è rimasto un po’ in secondo piano. Negli anni sono riuscito però a portarlo avanti e quasi quattro anni fa ho chiesto aiuto a Giacomo Carlone, già produttore dei Mombao, per ultimarlo. Le canzoni si sono così scrollate di dosso alcuni limiti che mi ero posto precedentemente e abbiamo cominciato ad aggiungerci batterie, archi, elettronica e chitarre.

Produrlo a quattro mani con lui è stato un viaggio che ci ha insegnato moltissimo. Ha permesso alla prima parte del processo, basata su pianoforti sordinati e voci sussurrate in appartamenti, di diventare qualcosa di più ampio e stratificato.

Anche rilasciare questo disco ha richiesto il suo tempo. Allo stato attuale le strutture discografiche italiane non sembrano ancora pronte per relazionarsi con dischi in lingue miste mentre il pubblico è già oltre questo ostacolo. Ne sono un esempio gli stessi Maneskin e Ghali. Dal vivo vedo che il cambio di lingua non influenza la fruibilità del progetto. Riesce, anzi, a comunicare sia ai madrelingua italiani che a quelli inglesi in maniera continua e naturale. Alla fine ho deciso di accogliere il mio percorso di artista completamente indipendente e autoprodotto. Penso che attualmente le strutture del music business stiano passando un periodo di profondo cambiamento. Alcune stanno morendo, altre si dovranno reinventare e la figura dell’etichetta per come la conosciamo fino ad ora sta perdendo sempre più forza.

D’altro canto invece il pubblico è sempre più curioso e consapevole, desideroso di esperienze vere, incontri e contatto umano. Pronto a creare un nuovo mondo in cui l’artista e il suo pubblico sono in contatto diretto, senza più intermediari di troppo.

MILLE STRADE, MILLE TAPPE

Un’altra tappa imprescindibile del tuo percorso nella musica e nella performance è il tuo duo, i Mombao, coi quali hai percorso tratti di strada considerevoli. Com’è nato questo progetto così impattante nella dimensione live, quali sono le tematiche che confluiscono nelle vostre ricerche?

Purtroppo questa domanda richiederebbe un paper accademico per risponderti in maniera esaustiva. I Mombao nascono dall’amicizia fra me e Anselmo Luisi nata dietro ai banchi dell’Università Bocconi di Milano. Un posto un po’ surreale in cui far nascere un progetto così peculiare. D’altronde il percorso dei Mombao non è mai stato una linea retta o un’unica idea primigenia che ha dato luce a tutto il resto. Mombao è un organismo multiforme, un micelio che si da la possibilità di sperimentare qualcosa di inaspettato per vedere cosa succede, raccoglierne gli insegnamenti e mutare nuovamente. Inizialmente Mombao era un progetto che aveva al centro la ricerca del Surreale. Suonavamo con delle camicie colorate su un palco e cantavamo fonemi senza significato, provando a spingere i limiti del duo sintetizzatore-batteria.

Dopo l’incontro con il Teatro Valdoca di Cesare Ronconi e Mariangela Gualtieri nonchè della ricerca di Lucia Palladino, il progetto ha cominciato a virare verso i canti popolari, il teatro e la performance. Siamo cresciuti in un periodo storico in cui il live era al centro di ogni carriera musicale, non c’era Spotify, Myspace era morto e l’Italia era piena di locali medio piccoli in cui si poteva fare gavetta. Così abbiamo deciso di incentrare tutte le nostre forze sulla performance dal vivo. Dato che gli impianti di questi locali erano piccoli e non potevano reggere i volumi che immaginavamo per il nostro sound, ho cominciato a mettere l’elettronica dentro ad amplificatori da chitarra e basso. Ho spostato anche la batteria al centro della sala, in modo da entrare nello stesso spazio acustico del pubblico, diventare sculture viventi, corpi coperti di argilla.

Dopo un tour in Marocco in cui abbiamo avuto la possibilità di suonare con una comunità di musica tradizionale marocchina abbiamo capito anche il valore della musica come strumento per qualcosa d’altro, uno strumento capace di indurre stati alterati di coscienza, attraverso i quali poter entrare in contatto con qualcosa di sommerso ma presente in ognuno di noi. Così facendo i punti hanno cominciato ad unirsi. La maschera è diventata un sistema per nascondere la propria individualità ed interpretare un archetipo collettivo, senza un’età o una cultura specifica, un archetipo che potesse risuonare in culture diverse.

Perdere la propria individualità ci ha però anche permesso di trovare uno spazio personale nuovo in cui parti profondissime e ancora più “individuali” trovavano finalmente modo di esprimersi. Mombao è diventato così un terreno in cui scoprire una nuova ritualità che potesse ridare significato al senso di fare concerti. Una risposta attuale ai temi della mancanza di radicamento, del mischiarsi delle culture, del senso di appartenenza globale ad un’idea di umanità che supera i confini e le barriere linguistiche. Un modo per far dialogare il passato (i canti popolari) con il futuro (elettronica, sensori, AI, scanner 3D), l’individuo con la collettività, l’umano e il mondo animale e vegetale. Pensiamo che il corpo fisico possa essere uno strumento per toccare il divino, un luogo in cui sperimentare nuovi modi di ballare, meno normati e più spontanei.

A PRODUZIONE DEI BRANI

L’esperienza di ascolto dei tuoi lavori – in misura e direzione diverse, sia i tuoi brani solisti che quelli coi Mombao – ha un alto potenziale immaginifico. Sono complici anche scelte di suoni e strutture che danno ad ogni brano una propria personalità marcata. Come nascono questi brani? In che modo strutturi o immagini il percorso di chi li ascolta?

Ogni brano nasce a modo suo, cerco infatti di cambiare il processo creativo ogni volta che mi approccio all’atto del creare qualcosa di nuovo. Penso che il centro del discorso artistico sia innanzitutto il processo più che il risultato finale, di conseguenza provo a sperimentare strade sempre nuove. Sicuramente con i Mombao la scrittura delle canzoni è strettamente collegata al momento performativo che immaginiamo durante il concerto, li chiamiamo dispositivi performativi. A volte immaginiamo prima cosa e perchè dovrebbe succedere durante la performance e solo successivamente partiamo da quegli elementi per scrivere della musica nuova.

Ultimamente invece abbiamo deciso di tornare alla forma del gioco, riempiendo la batteria di sensori collegati agli strumenti elettronici e trasformando così i due strumenti in un unico grande gioco con cui possiamo perderci improvvisando all’infinito. La dimensione di ascolto di Mombao è ovviamente legata al live e all’esperienza fisica, alla danza, alla perdita del sè. Nel progetto solista invece rimane questa dimensione psichedelica, questa tendenza a portare “somewhere else”.

Non intendo la psichedelia come genere musicale, ma proprio come tensione verso un luogo altro da sè, un viaggio interiore. Spesso mi viene detto che ascoltando la mia musica ad occhi chiusi in penombra ci si ritrovi altrove, come quando ci si risveglia da un sogno in cui abbiamo capito qualcosa di importante. Mi piace pensare che il filo rosso che unisce tutti questi percorsi sia proprio la dimensione del viaggio, della perdita del sè e il ritrovamento di un sè nuovo, rinato.

NUOVI PROGETTI

Ora che il disco è uscito stai dedicandoti ad altri progetti, tra cui una forma di tour molto intima. Vuoi raccontarcene, e parlare in generale dei progetti su cui sei al momento concentrato?

Per portare in giro questo disco così vulnerabile e delicato ho deciso che non volevo affrontare unicamente la strada classica della promozione standard delle etichette e dei festival. Ho capito che l’unica cosa che davvero conta per me è il contatto diretto. Ho deciso così di parlare direttamente al mio pubblico, proponendogli di aprire le loro case per ospitare un concerto solista. Questa proposta ha riscontrato subito una risposta incredibile ed emozionante. Più di trenta persone hanno aperto le loro porte per questa occasione di incontro, rendendo così reale e concreta un’idea astratta.

Nei prossimi mesi girerò infatti per tutta l’Italia a bordo della mia auto con i miei strumenti, due chitarre, un fender Rhodes e un sintetizzatore modulare. Viaggerò di casa in casa per conoscere di persona il mio pubblico. Una sorta di tour degli appartamenti! L’idea è quella di creare un legame che va oltre l’hype e le playlist. Voglio trovare un modo nuovo per rendere sostenibile una carriera musicale, bypassando tutte le strutture attuali prima che esse invecchino e perdano di senso.

Vorrei capire insieme a loro come possiamo fare per mantenere una connessione al di là dei social network e continuare a vederci per fare quello che importa davvero, che, per me, sono i rapporti umani. Da questo mi piacerebbe trarre un piccolo documentario on the road. Si tratta di un genere che adoro e che penso possa adattarsi perfettamente al mio stile di vita, molto nomadico e perennemente in movimento.

Mi piace pensare che questo possa essere un modo vero, sincero e reale per costruire, in maniera organica, una base per poi poter girare con la mia band, che ha nell’organico Giacomo e Arturo Zanica (Elazar). Oltre a questo progetto ho appena finito di co-produrre To All The Lost Souls, disco di Guinevere pubblicato da Tempesta Dischi, e sto per produrre il disco di un’altra ragazza davvero molto brava. Fra le mani ho anche un paio di dischi dei Mombao e un libro nuovo, nonchè una notizia fresca fresca! Qualche secondo fa ho confermato un viaggio a New York e ancora non ci posso credere. Chissà cosa nascerà dopo un mese passato in quella città così elettrica!

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