
Guinevere, musica luminosa per anime perdute
Il nuovo album di Guinevere, TO ALL THE LOST SOULS, scosta le tende del sipario di un rêve personale, la sua voce dai tratti sirenici da luce a quindici brani eterogenei per mood e durata ma accomunati dalla capacità di sollecitare l’ascoltatore: danza, gesti, vibrazioni, grida collettive, soliloqui raccolti. Personalmente mi ha regalato uno dei momenti più belli del 2024: sulla Roma-lido, Guinevere che mi avvolgeva le orecchie. Lacrime felici hanno fatto capolino per ore. Abbiamo chiacchierato un po’, e queste sono alcune delle riflessioni nate dalla nostra conversazione.
genealogia musicale
Senti di avere una sorta di genealogia musicale?
Le mie ispirazioni sono difficili da catalogare: non mi ispiro a qualcosa in particolare, ma mi rendo conto che, come artisti, siamo una sorta di macchina che assimila e rielabora tutto ciò che ascolta. La musica che ci circonda inevitabilmente lascia un segno.
Da piccola sono cresciuta a pane, burro e Beatles: loro sono stati parte integrante della mia ricerca musicale. Restando su quegli anni, aggiungerei Joni Mitchell, Nick Drake, Pink Floyd, Rolling Stones, Janis Joplin, ma in realtà il mio universo musicale è vastissimo. Anche band più “contemporanee”, come i Radiohead, mi affascinano molto. Non mi ispiro direttamente a nessuno di loro, ma le loro influenze emergono nei miei brani.
Negli ultimi due anni di scrittura e produzione dell’album, Thom Yorke mi ha fatto da guida spirituale: quando ero in studio, bloccata su una scelta, mi chiedevo spesso: “Cosa farebbe Thom Yorke?“.
il nome del disco
A proposito del nuovo album, ha un titolo forte, delicato e introspettivo, come mai lo hai scelto?
Il titolo mi è arrivato quasi per caso e ho sentito che doveva essere quello. È successo quattro-cinque anni fa, ancor prima di lavorare su “Running In Circles”, il mio EP d’esordio. Era un periodo difficile della mia vita, soffrivo di depressione e insonnia, e la musica è stata la mia medicina. Ho iniziato a comporre per esorcizzare e affrontare quei momenti. Già allora, sentivo che un giorno avrei voluto trasformare quel dolore in un album.
Un giorno di primavera del 2020, guardando fuori dalla finestra, ho avuto una visione: un pianeta Terra popolato da anime smarrite che si abbracciano. Poi mi è arrivata l’immagine della copertina e ho sentito dentro di me il titolo: TO ALL THE LOST SOULS. Racchiudeva tutto il significato del disco: parlava di me, delle persone che vedevo intorno, di un mondo che sembrava distrutto ma che ancora nasconde una generazione con speranza e voglia di cambiamento.
immaginari visivi
La tua musica è molto evocativa anche dal punto di vista delle immagini. Qualcuna ti ha
mai impattato in modo particolare?
Tutto ciò che vedo intorno a me mi influenza. Non ho reference visive specifiche, ma molte immagini che poi si sono concretizzate nei video musicali e nei progetti fotografici sono nate dai sogni o da sensazioni astratte. Il video di Unravel e il mio immaginario fotografico, sviluppato con Stefano e Angelica, sono esempi di questo processo.
Giulia Borges, la regista del video, ha avuto un ruolo fondamentale: grazie alla sua passione per il cinema, ha dato forma concreta alle mie visioni astratte. In fondo, è una domanda che andrebbe fatta più a lei che a me! Io sento e vedo certe immagini, ma solo dopo capisco perché.
unravel
Hai un brano preferito del disco?
Domanda difficilissima! Non credo di averne uno. Nell’EP precedente avevo un figlio prediletto, Setting of the Sun, ma con questo disco ogni brano ha un significato unico per me.
Se dovessi sceglierne uno, direi Unravel, perché segna l’inizio del mio percorso musicale e il primo passo fuori dalla depressione. Dal punto di vista compositivo e di arrangiamento, Per Andrea, Per Sempre è molto importante per me: Vincenzo Parisi ha fatto un lavoro straordinario sugli archi e le percussioni.
Ogni canzone ha un posto speciale nel mio cuore per ragioni diverse: alcune hanno una storia forte, altre sono nate in momenti magici, altre ancora mi hanno sorpreso per come sono venute fuori.
LA DIMENSIONE LIVE
Come vivi la dimensione del live?
È una dimensione totalmente diversa dal disco: più effimera, ma incredibilmente potente. È il momento in cui la musica prende davvero senso, perché fare musica significa dare e darsi. Nei live hai davanti persone reali, pronte ad ascoltarti e condividere quell’attimo irripetibile.
Sento una grande responsabilità: voglio essere sempre presente a me stessa, essere nel “qui e ora” mentre canto. Un momento che mi ha toccato profondamente è stato dopo l’apertura a Bon Iver: una donna in lacrime mi ha fermata per dirmi che non mi conosceva, ma la mia musica le aveva smosso qualcosa dentro. È stato un regalo immenso.
costume design, creatività, sostenibilità
In quel live avevi un abito particolare, ma fa parte di un tuo progetto di realizzazione abiti
che prevedono materiali di riciclo?
Quel concerto mi ha aperto un mondo. Sono una persona molto creativa e amo l’arte in tutte le sue forme: pittura, scultura, ricamo, oltre alla musica. Avevo collaborato con un brand indipendente per un abito, ma alla fine non mi rappresentava.
Così, all’ultimo momento, ho preso materiali di scarto e ho ricostruito un vestito che avevo in mente. Da lì è nata una passione.Molti degli abiti che indosso nelle foto – come il corpetto di fiori e il tulle – li ho realizzati io. Mi ha ispirato molto la collaborazione con iiwii, un brand di un caro amico, che utilizza materiali di riciclo: amo ridare nuova luce agli oggetti e trasformarli in qualcosa di inaspettato
IL fascino del corpo
Tornando al disco, emerge il tema del corpo. Dato che comunque c’è questa componente molto fisica hai a che fare con il mondo della danza? Quali sono le domande che più ti affascinano sul corpo?
Il tema del corpo applicato alla danza è qualcosa che mi affascina tantissimo e che vorrei esplorare ancora di più. In generale, il corpo come forma di espressione e contenitore di domande importanti è un mio punto focale di interesse artistico. Ho scattato moltissime fotografie in analogico dedicate ai corpi.
Mi chiedo spesso: io come corpo, che cosa rappresento? Perché sono qui? Cosa significa il mio corpo? Sono domande che mi stimolano molto, soprattutto quando scrivo musica. Il corpo è un contenitore di traumi passati e ferite, ma anche di risposte. Corpo di donna, corpo in relazione con un altro corpo, corpo come luogo di memoria e trasformazione. Basti pensare alla psicologia dei movimenti: il corpo non è solo un contenitore, ma anche un contenuto.
Ogni volta che sono triste e mi sento abbastanza forte per reagire, la prima cosa che faccio è mettere gli ABBA e ballare per casa. L’ho fatto anche in studio durante la registrazione di Be Like a Spider – She Said.
guilty pleasure
Hai un guilty pleasure musicale?
Assolutamente sì: Beyoncé! È una regina. Run the World (Girls) è stato il mio inno durante la produzione di questo album.
IL GENERE
Puoi raccontare che nel mondo della musica ci sono ancora molte disparità di genere?
Sì, assolutamente. Quello che ho notato nel mio percorso sono soprattutto le sfumature sottili, quelle che si percepiscono nei piccoli dettagli. Quando il confronto è uno a uno, l’interazione è più equilibrata, ma nel momento in cui le figure maschili si raggruppano, l’energia cambia: venivo ascoltata meno e spesso mi veniva fatto notare che avevo ancora tanto da imparare. Ho imparato, purtroppo, a lasciar correre, ma sono dinamiche che non meritano la mia energia, anche se a volte è stato molto pesante.
Ho avuto la fortuna di lavorare con persone meravigliose, ma il problema esiste. L’industria musicale è ancora prevalentemente maschile e per una donna è più difficile mantenere alta la propria aura. Essendo il mio progetto personale e solista, tutte le persone si interfacciavano con me, eppure, in situazioni simili, a un uomo veniva detto “sei un grande”, mentre una donna a capo di qualcosa veniva spesso etichettata come “stronza”. È una cosa che mi ha fatto arrabbiare non poco. Parlando con altre artiste, emerge sempre lo stesso problema: a volte è esplicito, altre è nascosto sotto il tappeto. È incredibile quanto si sia creativi nell’evidenziare difetti in una donna che in un uomo sarebbero considerati qualità.
Se potessi scegliere qualcuno, vivo o morto, con cui ti piacerebbe dividere il palco, chi sarebbe?
Posso creare una band? George Harrison alla chitarra, Paul McCartney al basso, Chopin al piano, io e Joni Mitchell alla voce: Guinevere and the Nightingales.
musica luminosa
Tre parole con cui descriveresti il nuovo album?
Intenso, cinematografico e autobiografico
Sono le stesse tre parole per te stessa?
In parte sì. Sono sicuramente una persona e un’artista intensa, sia per chi mi circonda che per me stessa. La mia vita è un po’ cinematografica: ho vissuto in tanti luoghi diversi, mi vengono miliardi di visioni, amo esplorare e conoscere il mondo. Autobiografica perché la mia musica parla di me, e perché cerco sempre di raccontare la verità, innanzitutto a me stessa.
C’è qualcosa che ti farebbe piacere ricevere come domanda?
Si parla poco di quanto sia difficile esprimersi in questo mondo e riuscire a fare musica come la si sente davvero. L’industria musicale è veloce, satura di artisti e informazioni, e portare avanti un progetto non canonico, che non segue le regole del commerciale, è una sfida enorme. Se avessi voluto adattarmi alle regole del mercato, non avrei fatto un disco di 15 brani con una durata media di cinque minuti.
Spesso la sensazione è quella di lottare per una briciola di pane, quando invece potremmo unirci e moltiplicare la pagnotta, creare una comunità e un supporto reciproco tra artisti.
C’è qualcosa che vorresti dire ai lettori di Felt?
Di godersi la vita e la musica, perché sono cose bellissime, magiche e piene di luce.
VUOI SCOPRIRE ALTRA MUSICA BELLISSIMA? LEGGI FELT E SEGUICI SU INSTAGRAM!