Ormai: luci(dità) nel buio

Ormai è uno degli artisti più interessanti della sua generazione. Per l’uscita del suo ultimo album, “Il diavolo e i tulipani”, abbiamo avuto l’occasione di scambiarci due chiacchiere.

Un’intevista-fiume

Ne è uscita fuori un’intervista-fiume in cui abbiamo toccato argomenti quali: salute mentale e dipendenze, lo stato dell’industria musicale e la sua attività da autore, capitalismo e rivoluzione, il futuro suo e del mondo. Il tutto filtrato dal punto di vista di un ragazzo che ad appena 27 anni ha già le idee chiarissime sul proprio percorso e la propria proposta artistica, divisa tra progetto solista e attività autorale.

Avevamo già parlato di Ormai qui, in occasione dell’uscita del primo singolo che anticipava l’album: la dilaniante (ma in qualche modo catartica) “Vivere è ok”.

Per l’intervista siamo stati ospitati presso i Kaneepa Studios, cioè l’hub creativo di Michele Canova e della sua etichetta, Canova Rec. Alle pareti è affissa la storia della musica italiana: sono i dischi di platino collezionati da Michele nei tre diversi decenni di questo primo quarto di secolo, con mostri sacri quali Tiziano Ferro, Giorgia, Fabri Fibra, Jovanotti e altr*.

Ormai (Alessandro Pacco) arriva poco dopo, in camicetta hawaiiana e cappello senza visiera a coprire il cranio rasato da poco. Nel giorno in cui si è tenuta l’intervista, il suo ultimo album era uscito da una settimana esatta, e la sera prima del nostro incontro ha debuttato in live. Le occhiaie e la voce un po’ roca ci dicono che, probabilmente, dopo l’esibizione ha fatto serata.

come stai? Sei contento del feedback che hai avuto in questi pochi giorni dall’uscita de “Il diavolo e i tulipani”? Ieri lo hai presentato in live per la prima volta. Com’è andata?

Per me è un periodo particolare, nel senso che in realtà ho passato gli ultimi tre anni a lavorare a due album, questo è solo un primo step. Sono un po’ frastornato, perché siamo appena usciti e stiamo ancora curando tutti i vari aspetti; e anche per l’idea di aver fatto una cosa così personale, che adesso non ha più il mio monopolio interpretativo, ma è degli altri, di colpo… questo è un po’ particolare. Però è anche il lato bello di fare roba così intima.

Riguardo il disco, sì, sono molto contento. Non ci aspettavamo una risposta così immediata, così calda. Ieri è stato un po’ un crash test, nel senso che sei degli otto pezzi che abbiamo fatto sono brani che non avevo mai suonato dal vivo. Il vero rapporto che hai con i brani dal vivo si scopre quando li fai per un po’. Ho avuto una bella risposta per “Irene”, che in realtà è un brano che avevo fatto uscire inizialmente nell’album “I ragazzi annegati” del 2021, che poi abbiamo rieditato. Quindi un brano che è sì uscito da una settimana, ma che molte persone già conoscevano, è stata un’esperienza forte.

In secondo luogo, anche “Dove non si va” mi ha dato molto. È il pezzo di chiusura del disco, è un brano speranzoso che esce dalla zona di oscurità e di buio costante che ho io quando quando faccio musica. Lascia un po’ di aria, riesce secondo me a concludere bene l’album e anche il live.

Hai toccato il tema del buio e della luce…

…” Il diavolo e i tulipani”.

La tua scrittura si addentra in alcune tematiche che sono molto profonde e che sono spesso drammatiche e toccanti, facendolo a momenti con una certa dolcezza, altre volte con crudezza. Questo tratto è fotografato alla perfezione dal titolo dell’album. Come ti è venuta l’ispirazione? È venuta prima la canzone, o prima il nome del disco?

Prima il titolo. È successo lo stesso anche con gli album precedenti e con quello che uscirà ad ottobre. Innanzitutto mi piaceva l’idea di avere un titolo da romanzo più che da disco, non so perché, ma a me fa un po’ questo effetto qua [ride, ndr], tipo boh, un thrillerino.

Però sì, il concetto è quello. Ho l’impressione che nei momenti di leggerezza, dove si sta bene e si riesce a tirare il respiro, ci sia sempre dietro l’angolo l’inculata; e in momenti in cui invece c’è un’enorme gravità, e ci si sente un peso addosso, a un certo punto vedi il cielo e dici “non ci posso credere, è bellissimo”. Questa combinazione di cose la cerco molto nella mia scrittura, sento di non essere giustificato se non lo faccio. Quando stai a pezzi, se guardi bene, c’è interezza dall’altra parte; ed invece in un momento di totale superficialità, suggerire che c’è un abisso da guardare e volendo si può vedere tutto il ventaglio, tutto lo spettro.

Per questo, se parlo di una roba gravissima, tendo a prenderla con ironia, se parlo di una roba molto bella, tendo a incupirla. Non so se in futuro riuscirò a levarmi di dosso questo modus operandi. Mi piacerebbe fare un brano, uno solo, gioioso. Ancora non mi è capitato [ride, ndr], devo farmi un periodo gioioso, prima, probabilmente.

Il tema del tempo, e del suo scorrere, torna spesso in quello che scrivi; ed è addirittura nel tuo nome d’arte…

…Sì, è vero. Lo noto adesso. [ride, ndr]

In questo nome c’è più il rimpianto doloroso di qualcosa che non è più, che “ormai” è finito? Oppure una rassegnazione pacifica rispetto a quest’idea del fatto che ok, il tempo scorre, però è proprio quello che rende la nostra vita degna di essere vissuta?

Sì, la tematica del tempo, della crescita, delle cose che diventano fuori portata di colpo… è una cosa che mi affascina molto, e che mi ha anche ferito nel corso della vita. Però non è per questo che mi chiamo Ormai.

Avevo un nome da rapper quando facevo le jam session da ragazzino, e giravo nelle battaglie di freestyle scroccando i treni. Mi chiamavo Orma, una roba tremenda. Avevo questa fissa di lasciare il segno, che ora trovo molto adolescenziale e che a un certo punto ho rinnegato. Non è per questo che scrivo, ora, e quindi volevo in qualche modo convertire il nome. Solo che ne ero già affezionato, le persone mi chiamavano così e quindi poi ho detto: “vabè, dai, aggiungo una i, almeno si associa a quello che sto vivendo”.

Io sono molto in pace con l’idea di lasciar andare le cose. Il primo brano con cui ho avuto un minimo di riscontro mediatico è stato con la mia band, che si chiamava Inquietude, tra l’altro con personaggi con i quali lavoro, tra cui Pietro Fichtner, con cui ero anche in live ieri e che ha prodotto gran parte di questo disco. Dicevo, il primo brano che ci ha portato un po’ a esporci si chiamava “Dove Siamo Stati Bene (dovremmo avere il coraggio di non tornare)”. L’idea era proprio quella di parlare della difficoltà nel lasciare andare le cose, di quanto sia forse la skill più importante nella vita, rendersi conto del momento in cui ciò a cui ti sei aggrappato per sopravvivere diventa proprio quello da cui bisogna distaccarsi perché non ti sta più facendo bene.

Sono in una fase in cui soffro tantissimo le cose che ho perso, però è una sofferenza buona, nel senso che… tende a far male quando poi c’è il vuoto, quando invece stai costruendo, andando avanti nella tua vita, fai pace con quello che hai chiuso, anche se non smette di farti male. Fai solo pace con il fatto che ti sta facendo male.

Hai detto che non scrivi per lasciare un’orma. Ma quando butti fuori qualcosa di tuo, cosa anche inconsciamente speri che arrivi alle altre persone?

In realtà per me è un processo molto conscio. Cioè, io ho un messaggio molto chiaro. Con le canzoni io mi rapporto a ragazzi o ragazze che vivono fasi simili a quelle che ho vissuto io. Parlo di depressione, di abusi, di farmaci, di grandi periodi di solitudine, di desiderio di fuga, di adolescenze travagliate… mi rivolgo a chi le ha già vissute e vuole trovare un posto in cui sdraiarsi al sicuro mentre le ripercorre. Oppure a chi le sta attraversando ora. Per me l’obiettivo è dirgli: “guarda che c’è un altro lato. Questa roba che sembra oscura, infinita, che sembra un muro davanti agli occhi, non è la fine della tua vita, piuttosto la fine di questo momento”. E questo per me è un obiettivo importante.

Parli di una generazione spaccata e spacciata, e di un mondo che è tremendamente complicato, tra problemi di salute mentale, abusi, dipendenze anche affettive. Quanto c’è di Alessandro in Ormai? Nei testi che scrivi, quanto di ciò che dici lo hai visto con i tuoi occhi?

Tutto quello che scrivo è roba vissuta direttamente, o indirettamente attraverso persone che però ho vicinissime. Da un certo punto di vista è anche imbarazzante, è molto difficile scrivere senza pensare che mentre sto parlando di determinati eventi, magari le persone che hanno vissuto con me quelle cose poi le risentiranno. Cerco di non pensarci. Quindi sì, è tutta inevitabilmente vita vissuta, non riesco a scrivere d’altro. Magari in scrittura mischio eventi, si sovrappongono. Magari nello stesso brano ci sono riferimenti ai miei 15 anni e ai miei 25 a distanza di due versi e non è esplicitato. Però fungono a trasmettere la stessa sensazione e quindi li metto vicini, metto un paletto.

A proposito di salute mentale, tu come stai? Ti va raccontarcelo? Puoi anche ovviamente mandarci a fare in culo e non rispondere.

Ma no, tanto l’oversharing è il mio mestiere. Ti dico, quest’idea di fare l’artista è una roba dannosa, credo per tutti. Facendo l’autore ho avuto a che fare con gente molto più arrivata di me, e non ho ancora beccato qualcuno di sereno…

Finché non ottieni le cose, pensi che ottenerle ti dia una sorta di soglia di sbarramento oltre la quale starai bene, ti sentirai a posto. Pensi sempre che qualcosa arriverà, che ti farà star bene, ma poi non arriva, o arriva ma per momenti molto piccoli. Cioè, aldilà delle soddisfazioni economiche di molti amici che in questo gioco stanno giocando bene, io non vedo tanta salute mentale [ride, ndr]. È uno sforzo egotico, è l’inseguimento di un hype, di una esposizione, di trovare degli incastri per far sì che le persone si accorgano… non è mai relativo a quello che fai, che scrivi. E quindi poi si svilisce tutto.

Io cerco di tirarmi fuori da questo gioco, di mantenermi puro, per quanto possibile. Da molte dipendenze sono uscito, da molti problemi sono uscito, da molte persone difficili mi sono allontanato. Ovviamente è un processo lunghissimo… Compirò 27 anni dopodomani, e mi sembra che gli ultimi tre anni siano gli unici in cui non ho girato in tondo, nella mia vita. Però questo non vuol dire per forza che io stia andando nella direzione giusta. C’è molta incertezza, ma penso che che sia una cosa un po’ generazionale, ecco. Non mi sento speciale in questo.

Cerco di strappare dei momenti, questo sì, sto molto attento a ritagliarmi degli attimi in cui metto i piedi nel mare, scappo dalle cose, spacco la sim del telefono, dormo in tenda tre giorni. Che sono tutte cose che quando lo facevo a 16 anni mi chiamavano la polizia dietro. Adesso invece grazie a Dio nessuno mi cerca.

Da artista, come ti poni nei confronti dei social? Tra l’altro, per la promozione dei tuoi ultimi lavori hai incominciato a mostrare più spesso il tuo viso rispetto a quello che succedeva prima. Come vivi questa cosa?

Mi sono affacciato alla discografia con la mia band quando si poteva ancora dire “troviamo qualcuno che gestisca i social”, ma siamo arrivati adesso a un punto in cui non puoi delegarla. Va fatto in prima persona, e richiede un sacco di tempo. Poi però non è detto che andando virale con un brano si crei affezione verso l’artista.

Ho amici con sorelle e fratelli più piccoli, che sono tutti ormai con profilo privato, e si sono resi conto che si stavano mangiando 8 ore al giorno su TikTok ed hanno preso delle iniziative diverse. Da me invece ci sono quindicenni che in piazza si accoltellano. Non so quanto siano su Instagram, loro. Magari poco, ma non vuol dire che stiano meglio. Io non la vivo bene, credo che sia una cosa che non possa ancora andare avanti per le lunghe. Poi, dopo troveranno sicuramente nuovi modi per prendere la nostra attenzione, monetizzarla e violentare il nostro tempo.

Riguardo la mia attività, io sinceramente mi sento un po’ ridicolo quando posto uno stralcio di 30 secondi di un album. Non è la mia strada, io faccio cantautorato. Non è il modo in cui va presentata la mia musica. Chiaro che se questo aiuta ad agganciare qualcuno e magari poi si vive la mia musica nel modo giusto, è un bene. Però sono stanco di sentire di gente anche molto importante nell’industria, che quando si interfaccia con la propria label, l’unica cosa che gli dicono è: “sì, ma metti i reels! Ma perché non stai facendo i tiktok?” So che è una lamentela comune, ma credo che sia proprio un errore storico. Credo che questo verrà visto sui libri di storia come un periodo di sperimentazione, in cui molte cose sono andate a puttane. Credo. Spero. [ride, ndr]

Secondo te c’è speranza? Tipo, nel mondo?

Io sono super ottimista. Non sono ancora morto, e in teoria dovevo, dieci… no, otto anni fa, ormai. La mia natura è ottimista. Penso che sia giusto trattare se stessi come dei buoni amici, e cercare di batterci per le piccole cose per cui possiamo permetterci di combattere. Se ognuno fa il proprio pezzo sulle cose che gli stanno a cuore, qualcosa si può cambiare.

Poi a un certo punto bisognerà passare alla violenza. Nel senso, no, dico davvero, prendere Zuckerberg e dargli fuoco. La stessa cosa per Jeff Bezos col cappello da cowboy che va nello spazio mentre la gente che lavora per lui ha il braccialetto che gli conta quanto tempo passa a pisciare. Nestlé che dà fuoco alle cose e poi si fa passare le mucche… Vabè, lasciamo stare i rabbit hole di questa roba, ma prima o poi andrà presa l’iniziativa di mettere le ghigliottine in piazza di nuovo, se no poi non cambia niente. È chiaro che se scendi in piazza perché la temperatura aumenta di due gradi, perché stiamo andando a puttane a livello climatico, ma poi Nestlé fa quello che fa, a che cazzo serve? A niente. Quindi non so, l’ottimismo, sì, però ottimismo con iniziativa. Un’iniziativa che deve diventare a un certo punto bella cattiva.

A me quest’idea dei miliardari voglio andare su Marte, mi fa tanto… vabè, senza grande complottismo, quando cominci a vedere che le persone più ricche del pianeta vogliono andare via, vuol dire che l’hanno fatta grossa.

NELLA CANZONE “JEFFrey BEZOS” TI CHIEDI: “COSA SA BEZOS CHE IO NON SO?”. C’è invece qualcosa che tu sai e che lui non sa?

Come avere i capelli… Stupido! No, non è vero [ride, ndr], tra l’altro adesso sono rasato anche io. Secondo me sappiamo tutti le stesse cose. Però per fare quei soldi deve essere un po’ sociopatico, quindi magari certe emozioni che ho provato io non le ha provate. Però vabè, si fa una settimana a Cantù e le prova anche Jeff Bezos, indubbiamente.

La cosa è che non puoi avere un’etica e fare successo in questo tipo di mercato. Anche nelle cose piccole, o in ambito musicale. L’imprenditoria non etica è più redditizia di quella etica. Qua si arriva ai massimi sistemi, [ride, ndr]. Io posso andare nei prati quanto voglio, ma poi si torna nel mondo e il mondo è fatto così, e a un certo punto imploderà.

Parliamo della tua attività d’autore. Come hai iniziato? Con qual* artist* hai avuto più feeling? Quali lavori ti hanno reso più orgoglioso? In generale, cosa cerchi in questa attività che non puoi trovare nel tuo progetto solista?

Ho iniziato quando Michele [Canova, ndr] mi ha firmato, durante il secondo anno di Covid. Mi ha piazzato in una sessione con Quentin Quaranta, di un brano che poi non è uscito. Da lì in poi ho lavorato a molte cose, tra cui dei progetti anche grossi che però devono ancora uscire, quindi forse non posso parlarne.

In particolare, è stata una grande esperienza lavorare con Nayt. Paraguay è un pezzone, sono fierissimo di essere stato in quella sessione. Con Rosa [Chemical, ndr] ho stretto un sacco. Una buona parte dell’album suo che deve uscire l’abbiamo scritto assieme. Abbiamo trovato una bella chimica, perché quel lato di scrittura su di me non la posso usare. Cioè, una cosa tipo “ti rimorchio su LinkedIn” non la posso dire nel disco di Ormai. Però mi fa piacere che lo dica qualcuno perché comunque è una barra della Madonna.

A volte scrivo delle cose e mi dico: “questa roba starebbe bene su… che ne so, Max Pezzali. Perché dovrei farla io? Non ha senso.” Magari non sono cose che riguardano la mia vita, o di cui m’importa avere una voce in merito. In realtà mi succede abbastanza spesso. Quindi cerco di compensare con il lavoro d’autore, di cedere.

Oppure, a volte scrivo cose per voci femminili, roba di tonalità altissima, che non posso addirittura neanche provinare. Il lavoro d’autore mi consente di non far abortire quelle idee, di farle fare a qualcun altro. Poi un apparato come questo [indica lo studio, ndr], il lavoro che fa Michele, è figo perché ci si riesce a connettere con delle belle realtà.

Tu che tipo di artista sei in studio? Collabori praticamente da sempre con Pietro Fichtner. Che rapporto hai con lui?

Che tra l’altro, è di là? Scusa, mi manca. Era con me fino a sei ore fa [ride, ndr].

Io amo cazzeggiare. Sono un cazzeggione in studio, ma per forza. Quando faccio le cose mie c’è sempre quest’aura di gravità tremenda nel brano, quindi fuori bisogna stemperare. Son belle le sessioni, sono divertenti. Soprattutto quelle da autore, mi rilasso molto perché non c’è quest’ansia di fare la roba per me. La leggerezza è fondamentale, cioè che la stanza stia bene, si deve ridere. Poi però serve anche che qualcuno prenda le redini della sessione, ovviamente. Michele su questo mi insegnato molto… giustamente, sono 87 anni che fa sessioni, vecchio di merda. Scrivilo, scrivilo: Michele Canova vecchio di merda [ride, ndr].

Poi, per quanto riguarda il progetto Ormai, non c’è quasi mai nessun altro che collabora con me alla scrittura, salvo pochissime occasioni di gente a cui sono legatissimo. Di solito tendo a scrivere tutto in 20 minuti, scarrellando, perché ho paura poi di entrare nel perfezionismo. Quindi poi fermo tutto e tengo quello, magari con aggiustamenti piccoli. E poi niente, butto affanculo il pezzo fuori e niente, ho fatto perdere tempo a tutti [ride, ndr]. Molte volte inizio a produrre da solo, poi finalizziamo con Pietro, con Michele o con Simo [See Maw, ndr] o chi per loro.

A livello tecnico, e di interpretazione, ci colpisce la tua capacità di beccare la take giusta. Hai una voce che graffia, sia per quello che dici che per la spontaneità, e sai buttare nel microfono quello che hai dentro. In generale, come registri?

Ci siamo incaponiti da impazzire su ‘sta roba qua. Io credo di non aver ancora trovato la mia dimensione vocale, in questo album… ma nel prossimo sì.

In realtà la maggior parte delle volte tengo i provini che registro da solo, lo faccio da tanti anni. È super importante auto-registrarsi, anche auto-prodursi un minimo. Ho costretto Michele a mixare roba registrata con un c1000s, in una cantina, con il suono della caldaia sotto e il cane che abbaia, la vicina che fa: “basta!” e i vecchi che giocano a briscola. Se tu togli il gate, ci trovi tutta quella roba su alcune tracce. Quando poi ho provato a ri-registrare alcune cose in studio con Michele, all’inizio non riuscivo a farle, poi pian piano ti alleni. Ma a parte questo se suoni spontaneamente, scrivi spontaneamente, canti spontaneamente, poi la roba che esce fuori suona spontanea.

La questione dell’affezione alle take è un casino, è una dinamica difficile. Pietro su ‘sta roba è devastante perché si affeziona ai provini in una maniera morbosa, quindi ogni volta sono lì a dire: “ma no, guarda che è meglio cambiare…” E lui: “no no, era bellissimo, prima. Abbiamo perso tutta la magia perché ho cambiato il rullante! Ora è una merda, prima era un capolavoro!”.

Ci racconti l’esperienza con gli Inquietude? siete anche stati a X-Factor, nel 2018. lo rifaresti? Ti è rimasto qualcosa che poi ti è servito più avanti nel tuo percorso?

Solo per far due numeri, fare un po’ di promo. Però è promo in un programma che è scritto. Tra l’altro eravamo lì l’anno con Asia Argento… proprio magia nera [ride, ndr]. A un certo punto era lì la capa della produzione, a chiedermi: “ok, adesso ragazzi ci fate vedere un po’ d’ansia”. Ma che sono, un attore? Ma che cazzo vuoi? Però eravamo pure arrogantissimi, e per la maggior parte del tempo veramente fatti… X-Fatto [ride, ndr].

È stato devastante, ma anche figo, alla fine abbiam scroccato il volo per andare in Norvegia, abbiamo fatto i nostri primi numeri, il nostro primo tour. Non avevo mai suonato dal vivo prima, quindi con loro ho acquisito molta sicurezza sul palco. È bello perché poi ti esplode il telefono per tre settimane, ma in realtà alla lunga molta di quella fanbase non è interessata a quello che stai facendo, è interessata solo a tifarti del programma.

Credo che nella pratica sia un buon modo per farsi promozione. Magari i social ti fanno schifo, allora ti butti sul lato televisivo. Sono anche molto amico di di Beatrice Quinta, che è andata molto più avanti di noi che siamo arrivati agli home visit. Mi ha raccontato la sua esperienza e devo dire che un po’ come sospettavo. Credo che, televisivamente, noi non fossimo pronti.

Cambiando discorso: Milano e la provincia…

Nessuno dei due. [ride, ndr]

racconti molto bene l’intercapedine che c’è tra Milano e la provincia. In questo momento tu vivi più Milano o più la provincia? Dove vorresti andare, se potessi?

Ma guarda, sono nell’alternanza totale. La settimana scorsa, mercoledì, ero alla release di Rosa in Porta Venezia a fare tutto il casino del mondo. Giovedì sera ho invitato 30 sconosciuti a casa mia a fare il release de “Il diavolo e i tulipani” a Cantù, nel niente. La mia vita è così. Se potessi fare un giorno un attico e un giorno in uno squat… beh, spesso lo faccio in effetti.

Entrambe le dimensioni in realtà mi soffocano, io vorrei andare al mare e ci andrò, a un certo punto. Comprerò casa a Portovenere e manderò affanculo l’industria. Spero di poter arrivare al punto di fare sei mesi un disco e sei mesi in tour, e nei mesi in cui faccio il disco stare a sentire la brezza marina, invece che sentire quello che sentivo a Nolo quando mi svegliavo la mattina. Cioè le bestemmie in piazzetta. Forse preferisco… preferisco il mare, ecco.

È un bell’obiettivo. La bellezza delle cose semplici…

Semplice per niente. Casa al mare costa. [ride, ndr]

Vorrebbe dire aver fatto successo vero.

Già. Ci arriverò a 78 anni e la comprerò con un sacco di scale e il terzo giorno che abiterò lì cadrò rovinosamente di faccia sulla rampa. Le mie ultime parole saranno una bestemmia bruttissima.

Parlaci delle tue illustrazioni. Per molte persone sono il primo impatto che hanno, nel momento in cui aprono il tuo profilo Spotify…

Effettivamente dovrei aggiornarlo. È uguale da otto anni. [ride, ndr]

Che rapporto c’è tra le tue illustrazioni e la musica? In passato è stato anche un lavoro, lo è ancora?

Ho fatto qualche lavoretto per persone care, ho fatto poi storyboarding per pubblicità, ho fatto qualche mostra, e qualche quadro l’ho anche venduto. Ma è una cosa che adesso sto lasciando per quando mi annoierò a dedicarmi totalmente alla musica. L’arte chiede radicalismo.

Mi piace fare le cose per me, le copertine dei miei dischi, singoli, quello mi piace molto. La copertina de “Il diavolo e i tulipani” era pronta, credo, da tre anni, o due. Mi piace visualizzare, anche mentre sto facendo l’album, dire: “ok, questo è il mondo di cui sto scrivendo”. Ce l’ho avuta come sfondo del desktop… che poi il soggetto è un boy scout con la testa da capra, il che per qualche ragione mi piaceva [ride, ndr]. Non ha molto senso, me ne rendo conto.

Ho fatto scoutismo, e vedere uno scout americano, così, un po’ satanico, mi faceva ridere. È un po’ una vibe, quel mondo onirico che c’è anche nei testi. C’è quell’innocenza totale, l’ingenuità, che è rappresentata dallo scout che ti vende i biscotti, associata ridicolmente alla malvagità della testa di capra, Satana, l’icona di tutto ciò che è sbagliato. Sono due cose opposte e accostate, che però insieme fanno la media e fanno capire che… niente è totalmente buono e niente è totalmente cattivo, ecco.

L’arte figurativa è una cosa su cui io sono formato veramente, come musicista non lo sono. Ho fatto sei anni di artistico, perché uno è andato in malora, ho fatto anche due anni di illustrazione in scuola civica qua a Milano. Quindi sì, è una cosa che so fare, ma non è una cosa che sto facendo. Forse, prima o poi, quando vedremo che gli streaming non arrivano, passeremo a fare le illustrazioni e basta [ride, ndr]. Magari a 78 anni a Portovenere mi infilerò un cavalletto nella costola cadendo dalle scale della mia casa nuova.

A livello lavorativo, tu ad oggi riesci a vivere totalmente di musica? O fai anche altro?

Allora… vivo di musica, però con un sacco di accrocchi laterali. Faccio anche musica per pubblicità, quando vedo che l’affitto non riesco a pagarlo. Poi, la SIAE e i contatti vari aiutano, ma pochissimo. Fare solo l’artista è un lavoro un po’ da privilegiati… Io non ho potuto permettermi di stare fermo per tanto perché non ho quel tipo di famiglia, quindi cerco un po’ di infilare le mani dovunque. È sempre roba artistica, quindi sì, vivo d’arte, di musica, ma non nel modo diretto, discografico, di concerti. Quello ancora… penso che ci vorrà ancora un annetto, sapendo i piani che abbiamo in mente. Poi manderò affanculo le agenzie pubblicitarie, sicuramente.

Ti va di raccontarci qualche aneddoto? Hai lavorato su qualche jingle imbarazzante?

Sì, ma non te lo dirò. Ho fatto anche lo speaker per delle cose oscene, anche robe grosse, e non posso mischiare la mia immagine con quelle cose, se no mi sputtano. [ride, ndr]

Prima hai detto che sei tendenzialmente ottimista. Volevamo chiederti…

“Perché? Ma sei stupido?” [ride, ndr]

Parlando più specificamente della tua carriera, sei fiducioso? Hai fatto intendere di avere dei piani piuttosto ben delineati per il prossimo futuro.

Io ho molta fiducia nel mio progetto. Sono sicuro che ci sia spazio per le cose che faccio io, magari non c’è in quest’istante ma si creerà. Penso che difficilmente ci sia qualcuno che può fare quello che faccio io, nel modo in cui lo faccio io. Quindi se si crea lo spazio vuol dire che quello spazio è mio di diritto. Vedo anche, nel mio piccolo, il responso che hanno le mie cose… non è grande numericamente, ma è mega intenso. A me questo fa bene, ma anche se non ci fosse, continuerei a credere nel messaggio che voglio comunicare.

La mia proiezione arriva a quello che deve succedere dopo ottobre. Poi… ragioneremo. Di base c’è un altro album pronto e ci sono delle occasioni belle intorno. Credo che ad un certo punto alcuni dei meccanismi e dei personaggi che caratterizzano adesso la discografia salteranno, e quindi si dovranno per forza trovare nuovi meccanismi. Siamo in un momento di impasse, come lo era la musica italiana prima del 2016, siamo rientrati in quell’area un po’ plasticona, dove tutto quello che c’è di bello è in un underground confuso. Intendo underground non nel senso di “emergente” ma di “sommerso”, in cui mi ci infilo anch’io. Ma questa roba salterà, quindi c’è da capire io che ruolo riuscirò a ritagliarmi.

In bocca al lupo.

O: Grazie, viva il lupo.

A proposito dell’album che uscirà ad ottobre…

Sì, a ottobre magari primi singoli, poi…

Possiamo chiederti il titolo?

“Hotel per falene”. È stabilito da dieci anni, perché è lo stesso del primo disco che ho scritto a sedici, diciassette anni. Ho già l’illustrazione di una mia carissima amica, che tra l’altro è quella di cui parlo in “Vivere è ok”, che ora sta aspettando il secondo figlio, e sarà la grafica dell’album. Cartacea, magia. Queste sono le due cose certe.

Non vediamo l’ora di ascoltarlo. In chiusura, hai voglia di dare dei consigli di ascolti per chi ci legge? Qualcosa con cui sei “In fissa”?

Ah, ascolti. Temevo consigli di vita, minchia, non sono proprio la persona giusta, io [ride, ndr]. Però per gli ascolti indubbiamente. Ora vi spammo solo roba non cagata, piccolissima, magnifica. “Faenza” di Omega Storie, un capolavoro. “Profumo di dolore” di Leonardo Zaccaria ed EDONiCO, ascoltatevela tipo, subito. E poi in realtà sono in un momento strano, un po’ random. [guarda il telefono, ndr] Ouri, “blueprints of us”. A livello di artisti, io consiglio sempre Sóley, Dillon e Bedroom, “Grow” in particolare, è probabilmente il disco più importante della mia vita. Di Sóley invece consiglio soprattutto “We sink”. Un disco bellissimo, ovviamente roba tristissima, non serve neanche dirlo [ride, ndr].

Bomba, ci ascolteremo tutto con gusto. Invece, hai consigli per persone che nella vita vogliono provare a fare quello che fai tu? Cosa ti senti di dire a persone che stanno facendo il tuo percorso ma sono, boh, cinque o dieci anni indietro sulla strada?

Non so ancora se la mia è una strada percorribile, perché quello che sto provando a fare io non ha dei modelli precisi a cui rifarmi. È una scelta radicale, la mia, e non avendo ancora avuto successo mediatico che la giustifichi, non mi sento di dire se sia sano o saggio fare i passi che sto facendo io.

L’unica roba che mi viene da dire a qualcuno che si sta approcciando alla scrittura è di essere vulnerabile, di essere sincero. E poi di non confondere il voler essere relatable con l’essere vaghi. A me stanno sul cazzo tutti ‘sti pezzi vaghi che stanno uscendo. Parlano di roba legata al genere, quindi non di esperienze personali: “io sparo, io spaccio, sono matto, sono pazzo, ti scopo la tipa” [ride, ndr], ma perché te lo chiede il genere di farlo. Oppure pezzi tipo “ ti amo, mi manchi, mi manchi perché ti amo, ti ho amata perché mi sei mancata, non ci sei più ma sei sempre dentro di me”. Roba vaghissima.

Io invece trovo, almeno negli ascolti che faccio io, che sia molto più relatable quando qualcuno ti parla di qualcosa di specifico, che è successo specificatamente a te. La bullshit si sente, se qualcosa non la stai vivendo ma la stai cantando. Questa è l’unica roba che mi sento di dire sulla scrittura, che penso di aver capito in ‘sti dieci anni di disagio e di delirio sui testi. Sul resto non saprei dirti niente. Prima scopriamo se la mia roba può spaccare veramente, quanto voglio che spacchi, e poi farò un ebook: “Come ho fatto a passare dall’eroina al disco di platino”. Sottotitolo: “Dai buchi al booking”. [ride, ndr]

ti ringraziamo tanto per questo tempo che ci hai dedicato. È stata un’ora veramente interessante.

Porco due, un’ora [ride, ndr]. Praticamente una seduta di psicoterapia.

Siamo andati troppo a fondo?

No, no, si può andare molto più giù [ride, ndr]. Però no, bello, grazie a voi.

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Classe '95, romano ma a Torino. Faccio, non necessariamente in quest'ordine: l'ingegnere in un gruppo di ricerca che si occupa di estrarre energia rinnovabile dal mare, ripetizioni di matematica e fisica, poesia performativa e poetry slam, canzoni sotto il nome di Marco Sirma.